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sabato 12 dicembre 2009

Introduzione di Alfredo Romano alle poesie di Dante




Dante, sfortunato amico mio.


Quando ho finito di leggere le poesie di Dante sui tanti fogli sparsi, poesie degli ultimi tre anni della sua vita, ecco, mi sono detto, questi versi sono il suo testamento più vero, sono soprattutto tutto ciò che lui non ha mai potuto dire o gridare nell'arco della sua tormentata esistenza. Vi traspare, questo sì, un'esasperata impossibilità di vivere, di amare e di essere ricambiato, ma anche uno stile che si traduce nell'evocazione di ritmi, suoni e parole che vanno al di là dello sfogo personale e che sono invece di sorprendente e rara poesia.Eppure, malgrado fossi un suo vecchio amico, non sapevo che Dante, nei suoi ultimi anni, avesse scelto la poesia come compagna di viaggio, in un dialogo solitario, è vero, ma pur sempre un messaggio in bottiglia che lui, naufrago, lanciava di giorno in giorno nella speranza che venisse raccolto almeno da una pagina amica. A onor del vero, da quando da ben 17 anni aveva contratto matrimonio, era come scomparso, si negava, rifiutava gli inviti. Era andato a vivere a Roma, certo, ma aveva conservato il suo lavoro qui a Civita Castellana, e io e altri amici non sapevamo darci spiegazioni. In seguito capimmo: Dante non era riuscito a trovare quella gioia e quella serenità familiare che tutti s'aspettano quando mettono su casa. Lui è stato sfortunato, ecco, e forse non voglio cercare altre motivazioni, quasi che ormai siano inutili. Sappiamo per certo che in tutti questi anni non ha fatto altro che invocare amore, inseguendo come un'ossessione l'oggetto del suo desiderio. Il resto, anche gli amici, tutto era diventato secondario per lui. Finché ha avuto un filo di speranza, ha evocato in bei versi questa sua ossessione, poi un giorno quel filo si è rotto e ha gettato la spugna. Vana a quel punto anche la poesia, quella poesia che si dice salvi la vita.
Dante ha scelto di porre fine alla sua vita un giorno di gennaio del 2000. Aveva 50 anni. Era nato a Tricase, in provincia di Lecce, ed era approdato a Civita Castellana negli anni Sessanta con tutta la famiglia all'epoca della massiccia emigrazione dei salentini a Civita Castellana. Di lui sono stato il primo amico. Accomunato dal suo stesso destino, lo conobbi nella Tenuta Terrano dove allora c'era la più grande concentrazione di famiglie salentine dedite alla coltivazione del tabacco. Entrambi frequentavamo nel Sud le scuole superiori e l'estate raggiungevamo le nostre famiglie per dividere con loro la faticosa raccolta del tabacco al ritmo di 15 ore di lavoro al giorno. Dante in realtà, adorato dai genitori Assunta e Vito, dalle tre sorelle Desdemona, Diana, Maria e dal fratello Fortunato (quest'ultimi due, più grandi, rimasti nel Sud), veniva un po' risparmiato dalle grandi fatiche, quasi che a lui fosse stato affidato il riscatto sociale di una famiglia che lottava, come tutte allora, per la sopravvivenza. Come per gli extracomunitari oggi, anche per noi allora il termine "leccesi" stava a significare una colpevole diversità sociale e culturale. E non mancò il razzismo, pur in una Civita Castellana progressista dove la sinistra raccoglieva il 64% dei voti. Tutti ne soffrivamo per questo, ma si mordeva il freno, la strada per un'affermazione sociale e professionale era difficile. Dante, diplomatosi ragioniere, trovò ben presto un impiego presso l'azienda Colavene dell'imprenditore Gianni Colamedici di Civita Castellana. Dotato di intelligenza e capacità operativa non comuni, ben presto divenne la persona di fiducia dell'imprenditore e nelle sue mani vennero poste le sorti amministrative dell'azienda. Questa divenne la sua seconda famiglia, Gianni Colamedici il suo secondo padre. Me ne parlava sempre con ammirazione, come di un uomo che s'era fatto da sé. Dante, per trent'anni e più, ha profuso in quell'azienda tutte le sue risorse, e non stava lì a contare le ore di lavoro, non si risparmiava neppure il sabato e la domenica a volte, per non dire le vacanze estive. Era, come si dice, "arrivato", e ne era orgoglioso. E lo era anche la sua famiglia che smise la coltivazione del tabacco. Una villetta alla periferia del paese fece il resto: quelle schiene ricurve all'alba di scuri mattini nel silenzio rotto dal ticchettio di foglie spezzate erano ormai un ricordo lontano.
Mi accomunava con Dante una certa idea romantica della vita, un guardare le cose, gli avvenimenti e le donne, sempre con lo sguardo della poesia. Che poi significa vedere al di là. Già fin d'allora si mostrava attento alle buone letture e si faceva a gara a scoprire questo o quell'autore che ci fornivano riflessioni o discussioni di motivo esistenziale, per non dire confidenze sui nostri umori ed amori. Io ogni tanto salivo su di un treno e andavo lontano a tentare nuove esperienze di lavoro. Gli scrivevo da Milano e lui non vedeva l'ora che tornassi per fargli rivivere con gesti e parole le mie trascorse avventure. M'invidiava per questo, per quel mio sapermi staccare dalla famiglia e provare a vivere da solo in circostanze difficili. Era anche affascinato da quelle mie nuove idee di rivolta sull'onda dei movimenti giovanili di allora; incuriosito anche da quelle mie strane canzoni di satira e protesta tirate fuori dal mio bagaglio milanese. Io, per contro, mi schernivo: il fortunato era lui perché lui aveva un lavoro e io ero ancora in affanno. Questo rapporto a due ben presto finì. Si affacciavano nuove amicizie per me e trascinai anche lui nella mia banda di sbandati, per dirla alla Dario Fo. Si passavano intere notti a cantare, a discutere animatamente, a giocare con i destini dell'umanità armati di tanta speranza e voglia di capire e di fare. C'erano ragazze nel gruppo e nascevano sguardi e amori, delusioni e abbandoni. Era la vita. Un sogno a ricordare.
Negli anni seguì il riflusso e ognuno si ritirò per la sua strada. Ma se questo è successo con alcuni amici, con Dante non sarebbe stato possibile. Poteva capitare di rivedersi anche dopo qualche tempo, ma era come essersi lasciati il giorno prima. Nel fare ogni sera ritorno a Roma, lui percorreva con l'auto una strada non molto distante da casa mia. Si fermava talvolta, per poco, poi ripartiva in fretta come assillato da un incubo che l'attendeva. Io non capivo, ma lui era restio a confidarsi. "Ti voglio almeno una volta a cena con la tua donna," imploravo. Ma lui mi guardava con quel suo gesto di mordersi un labbro. Non insistevo. Mistero. Poi, prima dell'addio, ha lasciato scritto il perché: c'era purtroppo bisogno di un gesto per dare la sua anima in pasto alla verità, alla sua verità.
 Gli succedeva delle sere a volte, sul tardi, di telefonarmi. Diceva che aveva bisogno di sentire la mia voce e quella di Mina, la mia compagna. Nelle mani, magari, un bicchiere di vino lo incoraggiava a delle confidenze, a echeggiarmi, ancora una volta, il suo pessimismo cosmico. Una domenica pomeriggio mi chiamò col cellulare: era presso la riva del mare dalle parti di Fregene. "Senti le onde," mi ripeteva "ti ho chiamato per farti ascoltare il mare." Da quella voce traspariva tutta la sua radicata solitudine, una malattia dalla quale non voleva guarire, come dovesse pagare un prezzo a tutti i suoi sogni infranti. E intanto scriveva poesie, bellissime poesie che lui non mi leggeva. Come se niente e nessuno al mondo avesse potuto smuovere il duro gioco cui era legato. Lui non voleva aiuto, non gli serviva: lui voleva il suo amore, il suo amore chiuso a chiave di cui pur avvertiva il respiro nel silenzio della notte.
A giugno del 1999, otto mesi prima di quell'infausto 29 gennaio 2000, si prestò a partecipare a un premio di critica letteraria recensendo il mio ultimo romanzo  "Cantavamo Contessa". Ne era così entusiasta che non faceva che comprare copie e regalarle ai suoi amici ed amiche. Era come se fosse il suo di romanzo, come se l'avesse scritto lui. Ecco, nessuno più di lui ha saputo regalarmi osservazioni e commenti tra i più appassionati, per non dire di alcuni spunti ironici che l'avevano fatto ridere tutta una notte. Ero sorpreso. La giuria del premio, riunita a Otranto, assegnò a Dante il secondo premio. Lo inorgoglì questo evento: qualcuno, lontano, s'era accorto di lui. Ma non gli bastò a procurargli una maggiore stima di sé, a volersi un po' più di bene almeno, quel tanto da fargli capire che la vita è ricca di tante opportunità. Eppure Dante non era privo di interessi. Fino alla fine ha coltivato le sue buone letture: non soltanto romanzi, ma anche saggi di filosofia che potessero dargli magari una qualche risposta ai suoi interrogativi di natura personale; non mancava altresì di interessarsi di matematica, di politica, di economia. Quando si parlava di libri, Dante tirava fuori una cultura e un linguaggio insospettati.
Mi sono sempre chiesto come mai queste sue invidiabili risorse non siano state per lui un buon motivo di aggancio alla vita: ma Dante inseguiva solo e soltanto un sogno.
 Tre mesi prima, un colpo di telefono dall'azienda: "Alfredo, ti annuncio che sto per divorziare. Trovami un appartamento a Civita Castellana, ma che sia luminoso!" E io pronto: "Era ora, un passo che dovevi fare da tempo." E già, credevo che solo uno strappo avrebbe potuto cambiare in meglio la sua vita. E lo credo tuttora. Così mi sono messo a cercare. Incredibile, su di un anonimo VENDESI, c'era proprio scritto “Appartamento luminoso…” M'attacco al telefono: "Dante, te l’ho scovato l’appartamento luminoso!" Lui si è messo a ridere, a ridere che non la finiva più, a ridere che io avessi potuto prendere sul serio la sua “azzardata” richiesta. Poi 20 giorni prima l'ultima telefonata: "Ciao Alfredo, volevo salutarti…" Poi: "Passami Mina." Sentivo Mina ribattergli in modo più spassionato, senza fronzoli: "Basta, Dante, vieni ad abitare a Civita. Ti puoi rifare una vita, conosci tanta gente qui e sul lavoro non ti manca la stima. E poi ci siamo noi che ti vogliamo bene, ci sono altri amici…" Ma Dante De Giorgi (questo l'ho saputo dopo) aveva già da un pezzo iniziato le prove per farla finita. 

                                                                                Alfredo Romano



Alfredo Romano e Dante De Giorgi a Roma,
a Piazza S. Pietro, nei primi anni '70 del secolo scorso.